editoriale

Non lasciamo soli i ragazzi e i docenti

Redazione

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Foto: Pixabay

Da qualche tempo tutti andiamo dicendo che la scuola è uno dei problemi più importanti, più strategici e più urgenti da affrontare e risolvere. Un attimo dopo aver dichiarato questa sacrosanta verità, pare che i problemi gravi da risolvere siano i banchi monoposto, quelli con le ruote, i pranzi in aula, le distanze, le mascherine sì e le mascherine no e altre cento cosette. Possibile che nessuno pensi allo stato d’animo degli insegnanti?

Qui non trattasi di banchi, ma di una scuola da reinventare, di rapporti che vanno ben oltre le materie da insegnare, di presenze rasserenanti, con quale faccia entrare in ambienti occasionali, inventati non per rendere autentiche, calde, educanti, serene, antiscolastiche le ore del mattino o del pomeriggio, ma per risolvere le falle procurate dal maledetto virus. E se in qualche modo le infinite difficoltà strutturali, nonostante la burocrazia sempre fredda, ignorante, pesante più potente di ogni avversità e drammaticità, sono state risolte, cattedre vuote comprese, il tempo per rinforzarci dentro, per diventare più veri, più autentici e più coriacei, non ce l’abbiamo avuto e l’ansia anziché diminuire è aumentata.

Non vorrei radicalizzare la situazione, ma come dice Borgna, i linguaggi, le relazioni, le comunicazioni tra i due mondi, quello dei docenti e quello dei ragazzi, mai come in questo periodo è determinante. Non si può insegnare se non si è accompagnati da grandi risorse interiori che consentano di intuire quando parlare, quando interrogare, quando essere razionali e quando essere emozionali, quando comunicare con il sorriso, con lo sguardo, con un piccolo gesto, e quando inventare il momento giusto per irrobustire «i disorientamenti ».

Perché se c’è un luogo che avrebbe più bisogno di tutti di serenità e di una visione della vita completamente da inventare e da rimettere in sesto, è la scuola. Anche andassimo a quota zero con il virus, le ferite, le fragilità, le conseguenze psicologiche e sociali rimarrebbero forse ancora più profonde, perché interiorizzate. Cosa fare, come aiutare presidi e docenti ad assumersi un peso che pare non interessi nessuno e che venga affrontato soltanto dopo aver deciso che i bambini possono mangiare in aula anche la minestra?

A me fa ridere la presenza dello psicologo. Cosa potrà fare? Che ruolo potrà avere? Noi, delle comunità, che mai abbiamo smesso di vivere e di auto-motivarci sia con i ragazzi e sia con gli educatori, conosciamo le profonde ferite che questa maledizione ci ha inferto, ed è per questo che sento il dovere di denunciare la superficialità con la quale la politica ha affrontato il problema scolastico. Capisco le cattedre da riempire, le nuove aule da trovare, la qualità dei rapporti di lavoro, come superare la precarietà, ma in questa emergenza gli stessi sindacati non dovrebbero fermarsi alle minacce di scioperi generali, ma farsi anche loro carico di questa spaventosa drammaticità.

Davanti ai nostri figli ci devono essere persone che, nonostante colpite dalle stesse paure, avendole metabolizzate e controllate, con la loro presenza rasserenante non solo insegnano la matematica, ma aiutano i ragazzi a leggere la vita, con tutte le sue sfumature, i suoi interrogativi e le sue catastrofi. Qualcuno penserà che sto dicendo un’eresia, ma in queste situazioni la scuola conta ancora di più della famiglia. Vi parlo da persona che in questi mesi è sempre stata in mezzo ai ragazzi e che ha dovuto dare più coraggio, più speranza e più serenità ai genitori che ai figli. È chiaro che la scuola non è la comunità, ma deve essere altrettanto chiaro che i più in difficoltà sono stati gli educatori. Me li sono coccolati e siamo stati costantemente collegati via video. Basta poco, ma in certi momenti, va assolutamente vietata la solitudine. Faccio forse un esempio sbagliato, ma come abbiamo dato degli eroi alle infermiere e agli infermieri di certe cliniche nei mesi scorsi, anche qui, in modo diverso ma non meno delicato va supportato l’impegno, la fragilità, il dovere, il dubbio e tutto quello che giorno dopo giorno potrà accadere nei gruppi classe. Non riduciamo tutto alla presenza dello psicologo o a qualche intervento terapeutico. Le università devono farsi carico di ripensare la formazione permanente degli insegnanti, ma è già troppo tardi. Perché già nel prossimo anno scolastico vanno trovati momenti particolari e personaggi ben scelti, che, con il minimo di dottrina e il massimo di capacità di ascolto, si rendano disponibili. I ragazzi e i docenti sarebbe delittuoso lasciarli soli. Inoltre le modalità e i programmi vanno ripensati su misura con larga autonomia, con elasticità e creatività. Anch’io sparo tre verbi: percepire, empatizzare, dialogare.

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