Francesco, il semplice e Antonio, il sapiente
Un nome, Antonio. Un personaggio, un volto: Antonio di Padova, francescano. Immagine ben definita in ogni cuore: il Bambino Gesù in braccio e il giglio. Semplicità di effige, ma non certamente di personalità: complessa, poliedrica, ricca e profonda. Una mente, quella di Antonio di Padova, assai variopinta: teologo fine e poeta dolce; basterebbe dare una semplice lettura (anche veloce) ai suoi Sermones, opera teologica, “Summa” del suo pensiero di teologo francescano. Antonio così dotto e intellettuale un giorno viene folgorato letteralmente da un’immagine. Dobbiamo fare un salto indietro col tempo per comprendere bene la scena. Dobbiamo ritornare al tempo in cui Antonio non vestiva ancora il saio francescano. A Coimbra, in Portogallo, un giorno vede sulla sua strada dei fraticelli che sbarcavano dal Marocco, seguaci di san Francesco di Assisi. Recano con sé i corpi di alcuni altri confratelli che hanno perso la vita in missione: dei martiri. Ed è a questo punto che avviene la folgorazione per il santo di origine portoghesi. Da agostiniano che era divenne francescano.
C’è un’affascinante pagina di Don Tonino Bello che riesce a introdurci in un “confronto” assai interessante tra San Francesco e il santo di Padova. Il Vescovo di Molfetta pronuncia nella cattedrale, il 13 giugno del 1987, festa di sant’Antonio, parole che illuminano, entrano nel cuore con semplicità, chiarezza: “Si informò bene e sentì dire che Francesco d'Assisi parlava delle cose semplici: chiamava fratello il sole, sorella la luna, amava la terra, amava le piante, amava la natura, amava gli uomini, le persone, ma soprattutto amava Dio, gli voleva un bene da morire, amava Gesù Cristo. Aveva sentito parlare di quest’uomo straordinario che sapeva andare alle cose essenziali ed allora anche lui è stato affascinato dal bisogno di andare alle cose essenziali”. L’essenzialità: ecco il primo punto in comune fra i due santi. L’essenziale che determina la vita; l’essenziale tanto gradito a Dio perché non ha bisogno di tanti orpelli. E sia Antonio che Francesco lo sapevano bene.
Poi, don Tonino Bello continua: “È stato un raptus di sapienza, un bisogno di sentirsi travolgere dalla Sapienza di Dio, sapienza che significa saper dare sapore alla vita, dare sale alla minestra della vita. Per me questa è conversione, sicché lascia l’Accademia, le aule universitarie, i grandi volumi su cui aveva speso tanto tempo e si rivolge al popolo. Dopo un po’ di silenzio, perché scoppiò all’improvviso si può dire, Antonio nella sua sapienza fece anche il noviziato della gavetta, fece il cuoco nel convento dei francescani dove subito lo accolsero. Stette in silenzio per tanto tempo, sembrava che sapesse solo scodellare e fare qualche cosa in cucina, poi un giorno siccome venne a mancare un predicatore durante una celebrazione molto importante venne chiamato lui perché qualcuno aveva sentito dirgli cose molto sagge e fu allora che tutti conobbero la sua sapienza. Da quel momento Antonio di Padova andò da un punto all’altro, nei villaggi, nelle città, passava come Francesco annunciando la Buona Parola, la lieta novella, la Parola di Dio”.
Parole che trascinano e ci fanno comprendere bene il rapporto tra i due santi. Potrebbe dirsi che fra loro c’è stata una sorta di regola di compensazione. Uno specchio a due lati: da una parte Antonio di Padova, dall’altra Francesco d’Assisi. L’uno compensa l’altro, in una mirabile armonia di intenti e di azioni. La contemporaneità dei due santi non sempre viene sottolineata, purtroppo. Eppure proprio questa ci indica la ricchezza dell’ordine francescano: la semplicità nell'annunciare il Vangelo; la profondità teologica della conoscenza delle Scritture. A noi uomini di oggi non rimane altro che immaginare questo fiorente periodo: Antonio e Francesco, assieme ma allo stesso tempo divisi per le loro strade, che lavorano per un unico e solo traguardo: far vivere al mondo, già qui su questa terra, il Regno di Dio; far pregustare la gloria celeste.