religione

Desiderio di pace

Mons. Felice Accrocca

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Foto: archivio redazione

L’ incentivo escatologico costituì, nei secoli dell’alto e basso Medioevo, una potente leva d’impegno non solo religioso, capace d’attivare tante energie in azioni caritative e di respiro più vasto, finalizzate anche alla costruzione di nuove relazioni politico-sociali in ambito urbano. Il Signore sarebbe presto tornato e avrebbe fatto i conti: non ci si poteva presentare impreparati a quel momento; bisognava, perciò, mettere le cose a posto, dare ordine al disordine, portare la giustizia dove l’ingiustizia regnava. Così fu, ad esempio, con la «grande devozione» (magna devotio) del 1233, il movimento detto «dell’Alleluja», che vide attivi protagonisti i giovani Ordini mendicanti, seguiti ormai con grande attenzione dalla Sede di Pietro.

Nel 1228, con la lettera di canonizzazione Mira circa nos che indicava Francesco d’Assisi come il servo dell’ora undecima, Gregorio IX effettuava anche una scelta di enorme portata ecclesiale, avanzando — seppure ancora prudentemente — l’idea che fossero proprio i nuovi Ordini mendicanti a costituire quella milizia scelta sulla quale fare affidamento per il combattimento che attendeva la Chiesa nell’approssimarsi della fine e del futuro giudizio.

Nell’aprile del 1233, nella lettera Cum messis multa, anche i frati Minori che si trovavano nelle terre dei «Georgiani, dei Saraceni e degli altri infedeli», furono detti «operai dell’ora undecima» cui sarebbe stata riservata la stessa ricompensa di coloro che erano all’opera sin dal mattino, inviati a lavorare nel campo del Signore per bonificarlo dai vizi e dai peccati. Il 1233 fu quindi un anno intenso per i Mendicanti, che giocarono — come s’è detto — un ruolo di primo piano nel movimento «dell’Alleluja»: organizzando abilmente il consenso di cui godevano, in tante città spinsero con successo le fazioni in lotta tra loro a stipulare accordi di pace. Personaggi come il francescano Gherardo da Modena o il domenicano Giovanni da Vicenza risultarono infatti decisivi nella vita di molti Comuni italiani. Salimbene da Parma, cronista minorita, è tra le fonti che vengono meritatamente utilizzate per ricostruire le vicende di quegli anni. Nato nel 1221, egli aveva dodici anni quando la magna devotio ebbe inizio e i suoi ricordi si mostravano ancora nitidi cinquant’anni dopo, quando veniva scrivendo la sua Cronaca .
Ricordava, infatti, come al tempo di quella devozione i suoi concittadini attribuirono a fra Gherardo da Modena «l’autorità in Parma, perché fosse loro podestà e riconciliasse in pace coloro che erano in guerra. E così fece — annota il cronista —, poiché riconciliò molti nemici». Gherardo, come gli altri capi di quel movimento, era non solo un uomo di fede, ma anche un abile diplomatico: un uomo scaltro, capace di far leva sulla credulità e l’ingenuità della gente per trarla al proprio gioco.

Anche il cronista non era certo un ingenuo e in una pagina della sua Cronaca ci ha lasciato un racconto straordinario: «Questi celebrati predicatori — rivela infatti Salimbene — si riunivano di tanto in tanto in qualche luogo e programmavano le loro predicazioni, riguardo al luogo, al giorno, all’ora, al tema. E uno diceva all’altro: “Mi raccomando, attieniti a quanto abbiamo stabilito!”. E così, puntualmente, avveniva tutto come avevano concordato».

Continua quindi nel suo racconto: «Stava dunque frate Gherardo, come vidi coi miei occhi, nella piazza del comune di Parma (o altrove, dove voleva), sopra un palchetto di legno, che aveva fatto apposta per le prediche, e smetteva di parlare, e — mentre la gente restava in attesa — si tirava il cappuccio sulla testa, quasi s’immergesse nella meditazione di qualcosa riguardo a Dio. Poi, dopo una lunga pausa, rimosso il cappuccio, diceva alla gente, che aspettava col fiato sospeso, quasi citasse l’Apocalisse I: “Fui rapito in estasi nel giorno del Signore e ascoltai il nostro diletto fratello Giovanni da Vicenza, che sta predicando vicino a Bologna, sulla ghiaia del fiume Reno, davanti a moltissima gente, e tale fu l’inizio della sua predica: Beata la nazione che ha Dio per suo Signore, beato il popolo eletto da Dio come sua eredità”. Lo stesso diceva di frate Giacomino; lo stesso dicevano gli altri di lui. Si meravigliavano gli astanti e, mossi dalla curiosità, mandavano dei corrieri per sapere se era vero quello che dicevano gli uni degli altri. E constatando che quanto detto corrispondeva a verità, restavano indicibilmente stupiti (…). E in diversi modi e in molte parti del mondo, come io vidi coi miei occhi, al tempo di quella devozione si fecero molte cose buone».

Leggendo ciò, molti saranno forse portati a beffarsi dell’ingenuità delle folle di quel tempo, e a dolersi delle frodi inventate ad arte dai predicatori. Tuttavia è bene ricordare come ancora pochi anni fa, nel 2003, al tempo della seconda guerra del Golfo, attraverso un consenso organizzato ci si lasciò trasportare in un conflitto — al quale si oppose strenuamente, fino all’ultimo, il pontefice allora regnante, Giovanni Paolo II — prima motivati dal timore delle armi di distruzione di massa che sarebbero state in possesso del dittatore iracheno Saddam Hussein, poi — quando questo arsenale non fu trovato — dal desiderio di portare libertà a un popolo oppresso, senza lasciarsi sfiorare dal dubbio che la democrazia è un processo che si costruisce nel tempo e con armi diverse da quelle prodotte dall’industria bellica. I risultati che ebbe allora una simile decisione sono sotto gli occhi di tutti, come sotto gli occhi di tutti è il fatto che gli unici a trarne guadagno siano stati quei Paesi che da sempre investono sull’industria bellica e quelli che hanno tratto enormi vantaggi dal petrolio o dai gasdotti che attraversano quelle terre. E il consenso si orienta anche ai nostri giorni, quando in Europa si combatte una guerra.

(L'Osservatore Romano) 

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